Franck Kessie, centrocampista del Milan, ha rilasciato un'intervista a Sportweek, settimanale della Gazzetta dello Sport. Ecco le parole di Kessie: "Se mi fa strano sentirmi chiamare Presidente? Mi piace. È un nomignolo dato per scherzare, ma finché me lo dicono e nel frattempo lavoriamo duro, va bene. Chi è stato il primo a chiamarmi così? È successo che un giorno, a Milanello, parcheggio la macchina nel posto riservato a Gazidis. Uno della security, uno che chiamiamo Rambo, mi fa: "Franck, ma perché hai messo la macchina lì"? E io: "Lasciala, da oggi sono il nuovo capo del Milan". E Ugo Allevi dell’ufficio stampa, che aveva assistito alla scena, dice: "Perché lui è il presidente!"
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Milan, Kessie: “Così sono diventato leader. Futuro? Prima la Champions”
Franck Kessie, centrocampista del Milan, ha rilasciato un'intervista a Sportweek, settimanale della Gazzetta dello Sport. Ecco cosa ha detto
Però poi non l’hai più fatto…
"No, no, altrimenti prendo la multa" (ride).
Kessie, anche mister Pioli ti chiama Presidente?
"Quando vinciamo, sì".
E Ibra?
"Anche lui, dipende. Se siamo in gioia (testuale), sì".
Ma chi è più importante, dio o il presidente Kessie?
"Lo sai, tu? (Ride)".
Paolo Maldini ha detto che Kessie è diventato guida e leader, in campo e fuori: qual è il tuo modo di esserlo?
"Se ho qualcosa da dire a un compagno non lo faccio davanti a tutti perché non so come lui possa reagire. Lo prendo da parte e gli spiego. In partita è più difficile, perciò può capitare che cacci un urlo. Se qualcuno cammina, gli faccio: "Dai, corriamo, che dobbiamo vincere!".
A proposito: qual è il segreto della coppia di centrocampo che componi con Bennacer e che funziona così bene?
"Parliamo entrambi il francese. Mi succede pure con gli altri di esprimermi nella stessa lingua; solo dopo mi viene in mente che non mi capiscono. Allora mi sforzo di trovare la parola corrispondente in italiano, ma ormai l’avversario è andato…".
Discussione di gruppo nello spogliatoio: chi ha l’ultima parola tra te e Ibra?
"Parlano soprattutto i più anziani, Ibra e Kjaer. Loro e il capitano, Romagnoli".
E se c’è da andare da Pioli a nome della squadra?
"Lo stesso, loro tre".
Di te dicono che sei una persona molto riservata, attenta a custodire il tuo privato. È un comportamento che contrasta con la dimensione di leader, che costringe a esporsi. Dunque: quello di "capobranco" è un ruolo che cercavi o che hai dovuto accettare?
"Nelle rappresentative giovanili della mia nazionale, la Costa d’Avorio, sono sempre stato il capitano. Sono abituato a essere il primo a mettere la faccia, in campo e fuori".
E in casa chi è il presidente, tu o tua moglie Joelle, pure lei ivoriana?
"In Italia comandano le donne, no? E adesso noi viviamo in Italia…" (ride).
Tra i tanti giovani del Milan c’è qualcuno in particolare che si appoggia a te?
"Parlo con tutti, a cominciare dai più giovani: Hauge, Daniel Maldini… Anche con quelli della Primavera che ogni tanto si allenano con noi, come Mionic".
Fuori hai legato molto con Calhanoglu. Cosa vi unisce?
"Siamo arrivati insieme nella stessa estate di quattro anni fa. Io vado a casa sua, lui viene da me. Ci assomigliamo come carattere. Quando abbiamo il giorno libero stiamo quasi sempre assieme: andavamo al ristorante quando si poteva, a fare shopping al Duomo… Ma frequento anche Bennacer, Meite, Leao, Saelemaekers…".
A Leao tiri le orecchie per quanto potrebbe dare in partita e non riesce?
"Gli parlo. Lui ha quasi tutto. È molto forte, ha qualità, dribbling, a volte fa gol… Gli dico di restare concentrato, di mantenere sempre lo stesso livello di attenzione in partita".
Il Kessie di oggi cederebbe ancora a un compagno il suo numero di maglia come facesti al tuo arrivo quando Bonucci pretese il 19 che tu in carriera avevi sempre indossato?
"Lui mi spiegò che era importante, io parlai con Leonardo, con mister Montella, pure con Gattuso, che ancora allenava la Primavera… Bonucci era più grande, aveva più esperienza. Ma oggi non so se lo rifarei".
Anche tuo padre giocava, centrocampista centrale davanti alla difesa. È stato lui a metterti il pallone tra i piedi? (sorride)
"Direi di sì. Ho seguito la sua strada, anche se sono arrivato più lontano, perché papà non ha mai giocato in Europa. Anche il mio ruolo è più o meno il suo. All’inizio mi è venuto naturale per sentirmi vicino a lui, anche se poi ho giocato anche in difesa".
Tuo padre era un militare e lo hai perduto quando avevi solo undici anni.
"Se lo è portato via una malattia. La sua morte mi ha fatto crescere in fretta, anche se ero il più piccolo di sette figli, quattro maschi e tre femmine. Sono rimasto coi miei fratelli e mia madre, il calcio mi ha aiutato a sopportare il dolore. Il dolore non passa mai, però la vita va avanti".
Cosa ti resta di lui?
"Il ricordo dei giorni in cui mi portava a scuola e il pensiero che gli rivolgo quando faccio gol e mi metto sull’attenti per salutarlo. Glielo vedevo fare certe volte, quando arrivava un ospite a casa. Gli chiesi perché. Rispose: "È così che si saluta una persona più importante di te".
E oggi che sei a tua volta padre di due bambini, Prince Kylian di 2 anni e mezzo e Inayah di quattro mesi, cosa è cambiato in te?
"So di dover lavorare per loro, di essere responsabile della loro educazione e del fatto che non gli manchi nulla. Voglio essere un papà bravissimo".
Lo sei anche nel preparare la pappa o fargli il bagnetto?
"Lo faccio, lo faccio. Anche se sono stanco, quando torno dall’allenamento mi occupo di loro e gioco con Kylian finché va a letto. Colpisce già la palla, ma è ancora presto per dire se è bravo".
Tua madre e i tuoi fratelli sono ancora in Costa d’Avorio?
"Mamma e tre fratelli sì. Lavorano e hanno la loro famiglia. Altri due sono a Parigi, uno fa l’Università in Canada".
Facendo il verso a Impossible is nothing, il nome della campagna sociale di Adidas, il tuo sponsor, nel tuo caso si può dire che hai reso possibile quel che sembrava impossibile?
"Si può dire. Credo che si possa fallire, una, due o tre volte, ma alla fine, se ci credi, ottieni ciò che vuoi".
Ma è vero che da bambino tifavi Milan e andavi matto per Shevchenko?
"Sì. Il Milan era anche la mia squadra alla Playstation. Era facile tifare per loro: a quei tempi vincevano tutto. Quando ho indossato per la prima volta la maglia rossonera non ci credevo. Pensai che avrei dovuto sudare per quella maglia, perché del Milan io ero anche tifoso. È quello che cerco di fare a ogni partita. Giocare la Champions col Milan sarebbe grandioso".
Tra un anno ti scade il contratto: è un pensiero che ti assilla, o sei tranquillo?
"Ora sono concentrato sul lavoro che dobbiamo finire e che deve portarci in Champions. A fine stagione parleremo col club".
Sei arrivato in Italia, all’Atalanta, a 18 anni, nel gennaio del 2015. Come nacque il trasferimento?
"Mi videro ad Abu Dhabi, al Mondiale Under 17. Mandarono una lettera al mio agente, George Atangana, e mi fecero arrivare in Italia a gennaio. Sbarcai alla Malpensa. Nevicava e io non avevo mai visto la neve. Dissi a George: io torno indietro, mi sa che in queste condizioni non riesco a giocare. E lui: vedrai che passa. Feci tre o quattro allenamenti, poi le visite mediche. Mi misero nel convitto della squadra dove stavano gli altri ragazzi delle giovanili. Rimasi lì sette-otto mesi, dopo andai in prestito a Cesena, in B. Quando tornai presi un appartamento tutto per me".
Oggi parli bene la nostra lingua, ma all’inizio come è andata?
"All’Atalanta ebbi come allenatore prima Colantuono e poi Reja. Il mister diceva una cosa, io facevo il contrario e lui mi mandava ad allenarmi coi giovani. "Vai lì, che lì secondo me capisci", diceva. Facevo avanti e indietro con la prima squadra. Mi aiutavano Dramé e Benalouane, che mi traducevano in francese. Un giorno che mancavano entrambi all’allenamento, rimasi negli spogliatoi: "Mister, ho male, oggi non ce la faccio" (ride).
Ad agosto 2015 vai appunto al Cesena e mister Drago ti cambia ruolo, dalla difesa a centrocampo. Quella è la svolta.
"Arrivai all’ultimo giorno di mercato. In allenamento facevo il difensore centrale. Rimasi fuori per tre partite di fila, finché un giorno si fa male Sensi. Poi tocca a Cascione, infine a Moussa Koné, il giorno prima della partita. Insomma, a centrocampo non rimane nessuno e il mister mi chiede se me la sento di giocare in quella posizione. Sì, mister, l’ho già fatto. Vinciamo 1-0 contro il Livorno primo in classifica e non esco più. Ruotavano gli altri".
Torni all’Atalanta e trovi Gasperini.
"Avevo parlato col mio procuratore: fammi restare un altro anno a Cesena, qui gioco e mi diverto. Invece mi telefona Gasperini e mi dice: ti ho seguito, vieni in A e prova. Mi aiutò il fatto che, insieme a me, c’erano tanti giocatori nella mia situazione, senza esperienza di Serie A: Spinazzola, Caldara, Petagna… Giocai subito la prima partita. Con Gasperini lavori tanto, con lui non si scherza, ma alla fine il lavoro paga. Però ti ammazza, e quando arrivi a casa non hai la forza di fare niente".
Ma da chi hai preso più cazziatoni, Gasperini o Gattuso?
"Gattuso secondo me urla di più. È molto attaccato ai giocatori, è fantastico, ha un rapporto fisico con loro: abbraccia, tira un pugno sulla spalla, schiaffeggia dietro alla nuca. È il suo modo di essere dentro all’allenamento. Si incazza quando uno sbaglia, ma alla fine gli passa tutto".
Con Gattuso eri mezzala in un centrocampo a tre, adesso sei centrale in uno a due: solo così si spiega il tuo straordinario rendimento nell’ultimo anno e mezzo?
"Il ruolo per me non cambia. Centrale giocavo a Bergamo con Freuler o Cristante. Al Milan, già Montella mi disse che avremmo giocato a tre e io risposi che lo avevo già fatto al Cesena. È vero che da centrale è più facile attaccare venendo da dietro, perché hai di fronte solo il trequartista avversario. Superato lui, hai spazio davanti. Da mezzala sei più vicino ai difensori avversari, devi dribblare di più".
Gattuso ti chiedeva più coraggio: lo hai trovato?
"Mi diceva di non aver paura di sbagliare, di giocare con la testa più libera. Io sapevo di avere qualcosa dentro che dovevo far uscire. Oggi è più facile perché Pioli ha aiutato tanto la squadra e ora la squadra aiuta me".
Pioli ha ammesso che all’inizio il vostro rapporto non era dei migliori. Perché, e cosa è cambiato dopo?
"Quando arriva un nuovo allenatore porta le sue idee e ti chiede cose nuove rispetto a prima. È normale che all’inizio fai fatica. Però abbiamo parlato e parlato, io ho lavorato tanto su di me per capire come dargli quello che voleva. E alla fine ci sono riuscito".
Ora Pioli dice che sta nascendo un grande Milan. Cosa manca al Milan per tornare grande?
"La continuità nei risultati. Le grandi squadre non si accontentano mai, vogliono vincere tutte le partite. Questa deve essere la nostra mentalità. Sappiamo che non è possibile vincere sempre, ma dobbiamo provarci. Ma siamo già una grande squadra".
Quattro anni a Milano: a Kessie cosa piace della città?
"Tutto. È la città della moda, si mangia bene… Quando ho tempo, mi piace giocare a bowling. Come spendo i miei soldi? Se voglio spenderne tanti, aiuto chi ha bisogno, la gente del mio Paese. In Costa d’Avorio c’è una fondazione che porta il mio nome. Aiuto i poveri, i bambini negli orfanotrofi".
Abbiamo finito. Quanto ci metti, a pettinarti i capelli a treccine?
"Eh, tanto. Due ore, due e mezza. Bisogna farne una alla volta. Poi, per due notti almeno, devi dormire con un cappello che aderisce su tutta la testa, altrimenti si scompigliano".
Quando ti guardi allo specchio, chi vedi? "Come, chi vedo? Franck Kessie".
E chi è, Franck Kessie?
"Il presidente del Milan".
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